All’ultimo GameCamp tenuto a Mestre il 4 e il 5 ottobre scorso, Mario Morandi (Radiogame, Retrogamer, Neogamer) ha presentato uno speach molto interessante dal titolo “Arte e videogioco, una relazione complicata” (che trovate in video qui sopra). La domanda posta da Mario è una di quelle che sempre più spesso sono al centro di lunghe discussioni e ardite tesi di semiotica: i videogiochi sono arte? E dove è l’arte nei videogiochi?
La tesi sostenuta da Mario si muove attorno al messaggio che il videogioco propone all’utente, attraverso non solo la rappresentazione, ma soprattutto la morfologia della storia. Lo spessore culturale del gioco in fondo è dato dal tema affrontato e nel modo in cui lo si svolge e lo si strutturalizza.
Ma perchè considerare il gioco soltanto come storia e non come performance?
E’ vero che l’assioma di Propp per cui “una storia è un movimento dell’eroe causato da una mancanza che lo porterà a compiere un viaggio per risolvere tale mancanza“, è adatto anche ai videogiochi, ma di sicuro Tetris non corrisponde a tale definizione.
Da molto tempo il discorso accademico sull’affrontare il videogioco con un approccio narratologico, estetico e semiotico, contrapposto a quello dei ludologi, ovvero con nuovi mezzi da inventare, ancora non ha trovato un punto di accordo.
Roger Caillois divideva il gioco in PAIDIA e LUDUS, attribuendo al primo il gioco di competizione, sportivo o di combattimento, mentre qualificava il secondo come strutturato in regole e narrazione.
Non solo la narrazione racconta qualcosa (ludus), anche la performance (paidia) lo fa -come sostiene Chomsky e come prova la destrutturazione nell’arte, nella danza o nel teatro che sia. L’arte è nel messaggio, didascalico quanto emozionale, espresso dall’artista attraverso una sinestesia percettiva (audiovisiva, ma anche tattile grazie ai joypad vibranti); narrazione o performance sono solo due dispositivi utili all’artista.
Il videogioco, rispetto all’arte e al coinvolgimento dello spettatore, ha dalla sua una maggiore immedesimazione, un débrayage, si direbbe in semiotica, ancor più potente per il “non io-non qui-non ora“; il rapporto tra utente e opera è strettamente legato, e nel videogioco il giocatore è chiamato a esser protagonista dell’opera. Esempio perfetto sono i giochi di Tale of Tales (Auriea Harvey, Michael Samyn, Laura Raines Smith) in cui si può interpretare una vecchia che passeggia in un cimitero abbandonato, una bambina in un bosco o incontrare altri giocatori sottoforma di cervi e cerbiatti, in una foresta infinita e incantata.
Giochi in cui la drammaturgia è assente, ma la mimesis vale, non tanto per l’imitazione della realtà in sè, quanto per un’imitazione videoludica che restituisce angoscia, calma, mistero, come nel caso di The Graveyard; i paesaggisti vittoriani, con le loro illustrazioni da fairy panting, le prospettive di Albert Goodwin o la natura di Richard Dadd, che si ritrovano in The Endless Forest, etc.
E se Marina Abramovich nel suo recente The artist is Present, al MOMA, faceva del guardare negli occhi l’artista, l’oggetto artistico stesso, cosa accade nell’imitazione videoludica di PippinBarr’s The Artist is present?
L’artista Hunter Jonakin aveva già sperimentato il videogame come mezzo di connessione tra immaginazione dell’artista e realtà, creando in computer graphic un corridoio con in fondo un’opera su un piedistallo, riproduzione dell’ambiente in cui ci si trovava davvero. Se nel gioco “Ya dun Goofed! Concequenses will never be the same”, proiettato sulla parete, si faceva cadere l’opera dal piedistallo, questo accadeva anche nella realtà.
Ultima opera del giovane artista americano è “Jeff Koons Must Die!!!” un cabinato coin-op stile anni ’80 che simula un videogioco con una prospettiva in prima persona: gli utenti pagano 25 centesimi per entrare in un museo virtuale e distruggere con un arma tutte le opere più celebri di Jeff Koons.
Jeff Koons Must Die!!! The Video Game from Hunter Jonakin on Vimeo.
Qualche settimana fa abbiamo parlato dei Kuso-ge giapponesi (letteralmente: giochi di merda) in cui il collage dadaista incontrava la commistione originale e tutta orientale dell’omoerotismo e del videogames, in una rappresentazione visiva difficilmente accumunabile a un’altra qualsivoglia forma artistica.
Concludendo, e ritornando al video di Mario: è possibile iniziare a considerare i videogames arte? Ovviamente sì, sempre che il mezzo sia usato consapevolmente, proprio come stiamo vedendo in questi esempi e negli ultimissimi anni. Credo che più avanti vedremo sempre più spesso applicazioni del genere nell’arte contemporanea, che si utilizzi una grafica all’avanguardia, una grafica dal realismo straordinario o una nostalgica grafica a 8-bit.
GQ
Grande… beh, hai detto molto bene e peccato che non sei potuto venire a Mestre perché prima ancora di proiettare il mio video, che è stato alla fine, abbiamo toccato diversi punti che hai portato (sopratutto la consapevolezza da parte di un creatore di videogiochi nel fare “arte”).
Al di là del “messaggio” che l’arte dovrebbe avere, io sostengo al di là di questo video che l’arte in un videogioco sia da ricercare nel game design e nella direzione di gioco.
Super Mario Bros è geniale, artistico nel suo darci la “velocità graduale” che dà vita a una gamma di salti diversi, ecco questo per me è arte, anche perché riusciva a dare qualcosa che allora non esisteva, comunicando attraverso la giocabilità delle emozioni e un feeling che SICURAMENTE Myamoto voleva dare.
In fondo guardare un quadro (che non possiede necessariamente una “storia”, una “narrazione” in senso stretto) significa spesso provocare una sensazione e uno stato d’animo, lo stesso vale per la fotografia; nel videogioco purtroppo si sopravvalutata tantissimo l’immagine, mentre l’arte nel videogioco è veramente qualcosa che va oltre “l’effetto speciale”.
Sono tanti giocatori, alla fine, ad essere fermi alla fase dell'”attrazione mostrativa” (v. cinema) e il mercato li accontenta, ovviamente.