In videogiochi popolari come “The last Of Us 2” e “Assassin’s Creed: Valhalla” si rottamano stereotipi e si propongono nuove rappresentazioni di genere: sui social network le polemiche diventano sempre più violente.
Articolo pubblicato su La Stampa
Era la metà degli anni Ottanta quando a Satoru Okada e Yoshio Sakamoto, creatori di Metroid per Nintendo, venne un’idea sorprendente: rivelare solo alla fine del gioco che il protagonista nell’armatura era in realtà una donna di nome Samus Aran. La sorpresa arrivava solo se si concludeva il gioco in meno di tre ore, mentre a meno di un’ora, si poteva ammirare la protagonista in bikini. Nuda a gentile omaggio, “Signor Principe, gradisca”, si diceva in quel film.
Le donne nei videogiochi sono un’anomalia, la loro presenza quando non è un colpo di scena, è da sempre criticata, contestata, discussa, a meno che non siano premio finale, reificate a ricompensa, in bikini, sessualizzate, messe al loro posto delimitato.
Le donne sono quelle da salvare e gli uomini sono quelli muscolosi che salvano: spostarsi di un centimetro dai contorni, mette in discussione i ruoli, fa vacillare le sicurezze, e causa reazioni problematiche.
A fine giugno scorso, dopo otto anni di attesa, è uscita l’attesissima seconda parte del gioco The Last of Us prodotto dalla californiana Naughy Dog: The Last of Us: Part 2. Già in un contenuto scaricabile del primo capitolo chiamato Left Behind, la protagonista Ellie si avventurava in un centro commerciale abbandonato con l’amica Riley, per un ultimo spensierato pomeriggio e in quell’occasione le due teenager si scambiavano a un tenero bacio sulle note di I got you babe di Etta James.
Anche nel secondo capitolo la sessualità della protagonista viene riconfermata con una storia che coinvolge questa volta Dina, sollevando proprio nel prologo del gioco un conflitto con uno degli abitanti del villaggio che le ha insultate vedendole baciarsi. Tutto è alla luce del sole: la storia di Ellie e Dina sarà centrale nello sviluppo del personaggio e nella sua risoluzione. Viene ad affiancarsi in questa nuova avventura anche una nuova coprotagonista di nome Abby, una ragazza dal fisico nerboruto e muscoloso, così lontano dalla donna in bikini di Metroid. Alcuni utenti in rete, guardando le immagini trafugate prima dell’uscita e finite online, hanno subito polemizzato pensando a una donna transgender e rendendo palese quanto manchino gli strumenti anche solo per immaginare altre fisicità oltre quella stereotipata: se non ha le curve e un seno grande, è (o era) un uomo.
Il tema di The Last of Us: Part 2 è importante e profondo e non si ferma al lesbismo di Ellie, bensì propone una riflessione sui modelli femminili, sulle altre identità, sugli altri corpi e lo fa con il potere dell’immedesimazione che solo i videogiochi possono regalare.
Il sito aggregatore di recensioni Metacritic pubblica in anteprima la votazione dei giornalisti di settore ed è un plebiscito: un capolavoro maturo e profondo da 9,5 su 10. Nella notte del rilascio del gioco però, pochi minuti dopo l’embargo per i negozianti e gli store online, avviene una premeditato e organizzato “review bombing”, ovvero migliaia di utenti assaltano il sito per abbassarne il voto a un 3,3. Sapendo che il gioco ha una durata minima di venticinque ore, è abbastanza fondato pensare che la votazione a pochi minuti dal rilascio sia stata dettata dai temi trattati e non dall’effettiva realizzazione: inutile girarci intorno, The last of us 2 racconta due figure di donne contemporanee e autodeterminate.
La discussione sui siti e nei social diventa così tossica e violenta che l’attrice Laura Bailey, interprete di Abby, riceve numerose minacce di morte. Ma purtroppo le minacce alle donne nel mondo dei videogame non si contano più e la lista ormai diventa pericolosamente lunga.
Alla disperata costruzione della propria identità, se famiglia, scuola o Stato non danno gli strumenti per comprendere altri corpi, altre identità, altre sessualità, i ragazzi trovano sicurezza in quei gruppi sempre più organizzati che vedono in questa pluralità di racconti un attacco alla figura maschile. Una stabilità data non da reali istanze ma dalla moltitudine, dal gruppo, che da sempre fa sentire più sicuri.
Il movimento MRA (Man Right Activist) da anni teorizza un complotto sociale e culturale per cui che le minoranze e le donne non siano davvero oppresse o sottorappresentate, anzi. Forniscono manuali pratici e decaloghi, risposte preconfezionate da utilizzare in veloci copia/incolla dalle chat di 4Chan o Reddit.
Non è un fenomeno solo americano, anche in Italia iniziano a vedersi i primi ragazzi che da videolog di YouTube sembrano avere motivazioni convincenti sullo svantaggio del maschio caucasico eterosessuale, in istanze prive di fondamento ma consolatorie, di supporto. “Ormai col femminismo è il maschio a essere oppresso” oppure “se non c’è un personaggio gay sei subito accusato di omofobia”, sono solo le due e più ripetute argomentazioni, mentre ci si organizza in ronde virtuali per minacciare di morte e stupro ragazze e ragazzi che dai loro profili cercano di veicolare messaggi inclusivi.
Basta fare un giro nei commenti di YouTube o Instagram per leggere frasi ripetute allo sfinimento e quindi assunte a concetti reali, come quella ridicola della “dittatura del politicamente corretto” che vorrebbe una rappresentazione integrata per la pressione di lobby femministe e LGBTQ+.Per quelle capriole semantiche che puoi ammirare solo sui social network, le minoranze oppresse, tali perché appunto senza alcun potere, diventano minoranze dalle decisioni incontrovertibili.
Cliché come “dittatura del politicamente corretto” acquistano nelle sfinenti ripetizioni un’apparente consistenza, e poco importa che i fatti e i dati dicano diametralmente il contrario: nei giochi presentati all’E3 del 2019, la più importante fiera di mercato del mondo dei videogame, solo il 7% prevedeva una protagonista femminile e solo il 5% opzioni legate ad altri orientamenti e identità. Se con il 7% e il 5% è dittatura, quella del restante 93% e 95% come dobbiamo chiamarla? Egemonia dei quadranti galattici?
A novembre di quest’anno uscirà l’ultimo capitolo della celebre saga della Ubisoft, Assassin’s Creed: Valhalla, ambientato nell’innevato Nord, tra vichinghi e mitologia norrena. Tra i vari video di anteprima è stata rilasciata una sequenza in cui il protagonista Eivor ha un’avventura sessuale con un altro uomo. Inutile dilungarsi sulle reazioni di lesa maestà all’idea del virilismo normanno infangato dalle famigerate lobby gay che ormai tutto decidono e obbligano.
“Ci sono molti personaggi con cui interagire e puoi farlo con entrambi i sessi” spiega lo sceneggiatore del gioco Youssef Maguid, ricordando che la stessa opzione era presente nel precedente capitolo Assassin’s Creed: Odyssey ambientato nell’antica Grecia, e le storie d’amore gay o lesbiche erano possibili con molti dei personaggi incontrati. “Se vuoi essere una donna e fare l’amore con una donna, puoi farlo. Se vuoi essere un uomo e fare l’amore con una donna, puoi farlo. Se vuoi essere un uomo e avere una storia d’amore con un uomo e una donna, puoi farlo” affermò all’uscita la regista di Odyssey, Melissa MacCoubrey, “abbiamo realizzato un gioco che offre una scelta e questo è qualcosa che conta molto per le persone. Per me conta molto. E conta molto anche per tutto il team che ci ha lavorato”.
Forse anziché parlare di “politicamente corretto” bisognerebbe parlare di “socialmente corretto” perché si offre una rappresentazione della società che corrisponde a quella reale, corretta appunto. E la società reale in cui viviamo è formata per metà da donne e per una grandissima percentuale da persone LGBT+, persone non abili e di etnie diverse (sì, più del 5%).
Continuare a rappresentare una società fatta solo di uomini caucasici, eterosessuali e abili, non è realtà, è fantascienza e questo bisognerà comprenderlo prima o poi, senza sentirsi minacciati o destabilizzati da una figura femminile, da un protagonista nero o asiatico, da un bacio gay o anche solo da un asterisco a fine parola.