(Il seguente post è la riduzione del mio intervento al Digital Talk tenuto a settembre 2020 con le Work Wide Women)
Sin dalle origini dell’invenzione del monitor, dello schermo e quindi successivamente del televisore, è sempre stata presente e contemporanea la voglia di sovvertire quella fruizione univoca in cui il mezzo pone lo spettatore in una posizione passiva di ricezione.
Ma già nel 1947 Goldsmith e Mann, modificarono un radar destinato alla rilevazione di missili nell’aerea statunitense, convertendolo a gioco in cui colpire target attaccati con adesivi sullo schermo: era il “cathode-ray tube amusement device” come lo chiamarono loro, la preistoria dei videogiochi.
Dieci anni dopo, nel 1958, Higinbotham prese un oscilloscopio e lo modificò affinché nella sala da aspetto del suo laboratorio di ricerca nucleare, gli astanti potessero impegnare il tempo con “Tennis for two”.
La voglia di interazione è nata con l’invenzione del monitor stesso, e che il divertimento e il gioco fosse il solco da perseguire, non è casuale.
Questo ci porta a un paradigma teorico dell’interattività e ci apre le porte sul campo della semiotica. Se da una parte abbiamo il simulacro semiotico che ci permette attraverso l‘immedesimazione, la fruizione di un’opera come spettatore, nei videogiochi abbiamo quella che Bruno Fraschini ha chiamato Protesi digitale, ovvero l’interfaccia che lega l’essere umano, all’essere simulato.
Attraverso la protesi (a pressione di un pulsante e di una manopola, accade qualcosa) il debrayage semiotico del “non io qui e ora” diventa ancora più immediato ed effettivo.
Senza scomodare la semiotica generativa di Greimas, quella interpretativa di Eco e il semisimbolico o il decostruzionalismo, cerchiamo di rendere le cose facili.
La protesi ci permette l’interazione, l’interazione ci apre all’immedesimazione psicologica e corporea: questa è la grande differenza tra i videogiochi e tutti gli altri media di rappresentazione. Sappiamo quindi che i videogiochi hanno il potere, attraverso l’immedesimazione, di aprire una strada preferenziale alle emozioni, mettendo il nostro avatar, la nostra proiezione di maschera al centro dell’azione, in una simulazione.
Il videogioco diventa così un cavallo di Troia digitale per messaggi e sentimenti, per esperienze e vite intere.
Veniamo a quello che fino a poco tempo fa era un luogo comune linguistico e che ora è realtà, ovvero “la generazione nativa digitale”, quella generazione Z che è nata in appartamenti già forniti di connessione e che la loro educazione è stata rivoluzionaria rispetto alle generazioni precedenti.
I ventenni di oggi hanno accessibilità a qualsiasi media di qualsiasi paese; possono conversare con gli autori di libri e opere, guardare le loro stories quotidiane e studiare il lavoro in progress.
Questa è la generazione che guarda solo 7 film l’anno al cinema, ma il 65% fruisce produzioni TV su piattaforme quali Netflix, e il 67% accede alla produzione musicale tramite smartphone. Tra i 14 e 18 anni i ragazzi passano più di 6 ore sugli schermi di device digitali.
Io se volevo sapere di più su Kubrick dovevo sperare che alla biblioteca di Campobasso, aperta a giorni alterni solo la mattina, ci fosse qualche libro stampato chissà quanti anni prima, e accontentarmi di quelle informazioni che trovavo nei tomi polverosi.
Questa è la differenza tra educazione di oggi e di ieri: non cogliere la differenza radicale è da sciocchi.
Tolte quindi la famiglia e la scuola come primi luoghi formativi (e sappiamo bene come siam messi sulla formazione di temi quali l’identità di genere, orientamento, minoranze culturali, femminismi intersezionali, etc.), sono quattro i principali riferimenti culturali per i ragazzi: i social network, la musica, le serie TV, i videogiochi.
Riusciamo ora comprendere la portata e l’importanza di tali mezzi?
Secondo il recente sondaggio di Harris & GLAAD, l’84% degli americani afferma di non conoscere persone transgender, ciò significa che la maggior parte delle informazioni arriva loro SOLTANTO tramite i media appena citati; diventa quindi fondamentale che questa prima interazione sia influente, positiva e diversificata per rispettare l’autenticità e non perpetuare pregiudizi o i bias culturali.
Cosa succede a quei ragazzi che attraverso i social network vengono in contatto con realtà di cui non hanno i mezzi interpretativi e di empatia? Cosa succede a quei ragazzi -bianchi, etero, cis e abili- quando si trovano a dover misurarsi con esperienze che non comprendono? Non solo c’è rifiuto e allontanamento (il proprio vissuto personale limitato diventa metro di giudizio del mondo tutto) ma c’è una ricerca di aggregazione del proprio simile. Ecco nascere come funghi gruppi MRA (Man Right Activist), i Red Pill, i famosi incel; ecco affollare Reddit, 4Chan e 8Chan; ecco le minacce sistemiche e organizzate di morte e stupro contro le influencer femministe, contro Zoe Quinn e Anita Sarkesian del GamerGate o Laura Bailey, attrice che ha prestato viso e corpo alla Abby di The Last of Us Part 2, con relativo review bombing. Ecco argomenti fantoccio ruminati e ripetuti in infiniti copia/incolla come “dittatura del politicamente corretto”, “i gay sono ovunque”, “essere uomo è una colpa”, “esiste la misandria”, “promuovete l’obesità”, concetti che non hanno nessun fondamento nei dati e nella realtà.
A fronte di questo quadro di mancanza di educazione, di vacuum culturale in cui i giovani vengono abbandonati e annaspano con quei rudimentali mezzi auto-costruiti, auto-immaginati, veicolare concetti e rappresentazioni culturali corretti, valoriali e differenti, in media così presenti nella vita dei ragazzi, non può essere ignorato o lasciato al caso.
Bisogna combattere questa epidemia dell’invisibilità e batterci affinché le rappresentazioni delle differenze siano presenti nei media principali di fruizione per i ragazzi, perché questi esercitano un potere di condizionamento e di educazione di etica pubblica. In una cultura eterosessista, maschilista, abilista, razzista, il silenzio è acquiescenza, avvallamento dei paradigmi culturali.
Il videogioco rispetto agli altri media può contare sull’interazione, la simulazione e il divertimento: non utilizzare questo potere su questa audience così affamata di formazione, non utilizzare il gioco per far passare messaggi di differenza e inclusione sarebbe da irresponsabili.