(questo è l’estratto del mio editoriale che apre il podcast di QueerMagazine e che potete ascoltare qui su Spotify)
Quando ero adolescente i bulli avevano davvero l’imbarazzo della scelta sui motivi per cui tormentarmi: leggevo fumetti, giocavo ai videogiochi, non impennavo col motorino, non giocavo a calcio, non scambiavo giornaletti porno rubati al papà, e ovviamente il motivo che vinceva su tutti: ero un ragazzino gay che non nascondeva molto di esserlo.
Negli anni 80 e nei primi anni 90, in quell’epoca pre-internet, pre-community online, se avevi la sfortuna di essere nerd, gay e abitare nella provincia del sud, possiamo dire che il livello di difficoltà poteva variare da hard a very-hard.
Dai confini, ancora lontano dalla cultura nerd condivisa, ho sempre però creduto che l’essere marginalizzati rendesse la comunità degli appassionati di videogiochi e fumetti inclusiva ed empatica. Mi sbagliavo.
Quando internet è diventato territorio di aggregazione ho scoperto che la cultura maschilista, machista e omofoba non solo era trasversale, ma era insita nelle radici di prodotti che per anni erano stati pensati e creati da uomini etero cisgender bianchi e abili, per un pubblico di persone come loro.
Qualsiasi tipo di diversità metteva in discussione una roccaforte creata negli anni, in un gioco di scatole cinesi di discriminato e discriminante.
Il sito PREVIEWS WORD a dicembre di quest’anno ha pubblicato la classifica dei 100 migliori fumetti del decennio. Su 100, quelli dedicati a un personaggio femminile sono 5.
Ma non bisogna andare fino in America per capire che “la dittatura del politicamente corretto” come la additano i critici da tastiera è una bufala: nei 50 fumetti più venduti nel 2020 sul sito di IBS la prima donna è al 12° posto ed è il libro “Bastava chiedere” di Emma, seguono Persepolis della Satrapi e la serie manga Demon Slayer di Koyoharu Gotoge.
Con rappresentazioni LGBTQ+ va ancora peggio, solo un graphic novel: il discutibile Cinzia di Leo Ortolani.
Su Amazon il quadro non cambia e sono presenti la già citata Gotoge e l’illustratrice Licia Luigina. Solo 2 donne.
Jameleddin Cole detto Jamal abita a baltimora, è uno sviluppatore, ha una moglie economista ambientale, una figlia al college e un figlio autistico.
Da due anni sul sito Jemal.com registra l’identità di genere, etnia, orientamento e disabilità nei professionisti del fumetto sulle uscite mensili. Dopo tutto questo tempo i suoi dati restituiscono la realtà dell’industria del fumetto mainstream:
-il 75% degli sceneggiatori è uomo-cisgender-etero
-l’84,3% dei disegnatori è uomo cisgneder etero;
-il 72% dei coloristi è uomo cisgneder etero.
Non stiamo parlando ancora degli anni 80 e 90, ma stiamo parlando del 2020.
Vi parlo di questo triste scenario fatto di numeri, perché i numeri ci aiutano a combattere percezioni sfalsate, bias culturali e opinioni non documentate.
Ma soprattutto perché in questo scenario ancora poco inclusivo possiamo comprendere quanto sia importante il lavoro che stanno facendo tutte le fumettiste, i fumettisti e i collegh non binari. Anche in Italia.
Possiamo capire quanto sia rivoluzionaria, necessaria e potente l’opera e la visibilità di Fumettibrutti, i lavori internazionali di Camagni e Bucci, quelli intimisti di Flavia Biondi e Macaione, l’attenzione di case editrici come la BAO, le notizie come il coming-out di Grant Morrison come persona non-binaria, o la bisessualità di Kitty Pride e la presenza di altri personaggi LGBTQ+.
Vogliamo più autrici, più Vanna Vinci, più Sara Colaone, più Sara Pichelli, più Paola Barbato, più Silvia Ziche; vogliamo più storie di donne e sulle donne.
Vogliamo corpi differenti. Vogliamo identità differenti. Vogliamo storie differenti.
E se c’è da lavorare ancora per cambiare le cose, non ci stancheremo, perché a combattere lo abbiamo imparato dalle supereroine e dai supereroi dei fumetti.