Di seguito gli appunti per il mio intervento a INVISIBIL3, il festival delle identità videoludiche, che si è tenuto domenica 2 aprile 2023 a Firenze.
Per affermare che le community di videogiocatori (maschile sovraesteso d’obbligo) siano tossiche dobbiamo domandarci per prima istanza se quella del giocatore esiste come identità, quali siano queste community e in che modo avviene l’azione di discriminazione.
1.
Credo che esistano due concetti fondamentali in apertura di questo discorso: quello del “player”, del giocatore casuale che definisce l’azione, la pratica del giocare e che una ricerca dell’ADL, Anti Defamation League del 2020 è registrato sul territorio USA al 27%; e il secondo è quello del “gamer” che viene definito dalla sua identità di giocatore in sé, al 45% degli intervistati secondo la stessa ricerca.
Personalmente credo che un’identità si costituisca attorno non solo a una comunità che condivide pratiche comuni, ma soprattutto a una storia e una cultura comune a cui fare riferimento.
I gamer sono stati identità definita dall’esclusione: negli anni ’80, periodo in cui possiamo teorizzare la nascita di tale identità, i giocatori/nerd/geek differivano dallo stereotipo del maschio/sportivo/sociale.
La sottocategoria di “gaymer” per me è ancora più carica di significato e identità definita perché è ibrida di due culture, quella dei giocatori appunto e quella della comunità LGBTQ+, con tutte le specifiche complicazioni del caso, come l’esclusione interna in un gruppo di per sé già escluso (e quando dico escluso intendo per sfumature anche discriminato).
La scelta del mio nickname “Geekqueer” nasce da questa crasi di due maschilità escluse dagli standard partiarcali.
2.
Non tutte le community online sono di gamer/nerd/geek.
Se negli anni ’80 avere un PC faceva di te quasi sicuramente un appassionato di informatica e tecnologia, ora non è più così. Oltre il 60% della popolazione mondiale è connessa con un PC o uno smartphone. La maggioranza.
Anche perché i videogiochi sono usciti dalla verticalità della nicchia ormai da vent’anni e più, da quando la Playstation ha sostituito pian piano i lettori DVD e BluRay, e i mobile game sono comparsi come funghi nei nostri smartphone.
Ora dobbiamo definire quali siano queste community tossiche di cui parliamo, perché le aree sono sfumate e i confini vanno da Reddit o 4Chan fino a di League of Legend o DOTA2, per citare le piattaforme in cui si registrano più casi di discriminazione. Prenderò quindi in esame solo piattaforme di videogiochi online e multiplayer, per provare a restringere la definizione di quelle identità.
3.
C’è anche da definire quali siano queste azione discriminatorie e in questo ci viene in aiuto un’altra ricerca, fatta dalla BRYTER’s Female Gamer Report.
Si parla di DARK PARTICIPATION (mi scuserete per gli inglesismi ma non è un caso che queste analisi e ricerche non vengano fatte qui in Italia) e nello specifico di:
–Trash Talking, (volgarità) 70%;
–Griefing o Contrary Play, ovvero quando si gioca per impedire/rovinare l’esperienza di gioco a qualcuno;
–Molestie e Minacce, 68%;
–Hate Speech, discorsi d’odio, 53%;
–Doxxing, condivisione di dati di terzi al fine di ledere la sua privacy;
–Swatting, invio di polizia o ambulanze agli indirizzi di qualcuno senza il suo consenso.
Al 2020, l’81% dei giocatori tra i 25 e i 45 anni, ha subito almeno una molestia o abuso nella propria esperienza di gioco online; stiamo parlando di 45milioni di americani.
Se andiamo a vedere nello specifico quali siano le discriminazioni più perpetuate troviamo:
-41% donne;
-37% appartenenti alla comunità LGBTQ+;
-31% appartenenti a etnie non caucasiche;
-25% persone asiatiche;
-25% persone con disabilità;
-18% appartenenti a religione ebraica;
-25% appartenenti a religione musulmana.
I dati che ho raccolto hanno un andamento del +10% dal 2019 a oggi.
L’industria videoludica, in aggiunta, ci racconta non solo di una mancanza di diversity preoccupante (30% di donne e 3% di persone non binarie), ma anche delle denunce alla Ubisoft che hanno portato alle dimissioni del vicepresidente e del capo creativo; e quelle di tre streamer americane che hanno raccontato le molestie subite da un collega, raccogliendo infine sui loro canali più di 400 denunce di altre professioniste dei videogiochi.
Fatte queste tre premesse chiediamoci quindi perché nello specifico le community di gamer, storicamente maschili, siano ancora così violente e discriminatorie.
4.
La comunità di videogiocatori è un ibrido che ha costruito la sua storia con un’altra identità ovvero quella del target di marketing: i videogame come prodotto sono stati ampiamente indirizzati e poi realizzati per un mercato maschile. Se agli esordi questo non era stato preventivato, nei primissimi anni di commercializzazione delle console e computer per gaming, le “personas di vendita” aderiscono agli stereotipi maschilisti delle aree di studio STEM (scientifiche, tecniche e matematiche).
L’identità dei videogiocatori ha quindi nel DNA un’omosocialità storica fondata sull’esclusione di altri generi se non quello maschile e sull’oggettificazione delle restanti (sessualizzate e criminalizzate).
Non solo i videogiochi sono “una cosa da ragazzi”, l’industria stessa inizia a pensare in quest’ottica, sviluppando software per quel target preciso.
Il “prodotto videogioco” che è mattone di questa comunità, entra però negli anni sempre più in un mercato variegato.
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Un’identità costruita sul marketing viene decostruita dal marketing stesso. Da qui la sensazione di possesso di una cultura e di spazi virtuali che in realtà erano stati solo occupati, non dedicati. Aprire quegli spazi vuol dire mettere in discussione le identità stesse, e se legate in maniera così indissolubili con l’idea di genere maschile, da qui potremo capire la crisi e il rifiuto che pervade il videogiocatore maschili.
Se il genere è una pratica, come ci ricorda Judith Butler, allora videogiocare è l’epitome maschile per almeno due generazioni.
È vero quindi che questa messa in discussione della propria identità porti a un’azione violenta nelle community che si percepiscono come proprie?
Lo dicono i dati:
-DOTA2, Defense of the ancients, si conferma una delle due community peggiori con l’80% di esperienze discriminatorie segnalate;
-VALORANT è l’altra, sempre con l’80%.
Anna Donlon, produttrice esecutiva di Riot Games, dichiarerà di non usare la chat del gioco perché “è uno schifo”.
-Rocket League, 76%;
-GTA online, 76%;
Call of Duty, 75%.
Non sono solo dati, ci sono delle conseguenze e sono gravi:
il 16% de* giocator* che hanno vissuto molestie online diventa meno socievole nella vita reale, il 14% si è sentito isolato, il 12% ha addirittura adottato soluzione per la propria incolumità e l’11% ha pensato al suicidio.
5.
Il discorso sulle community tossiche non deve contemplare soltanto i giocatori, ma diventare trasversale a più responsabilità.
L’industria in primis, responsabile delle proprie piattaforme, della moderazione, degli strumenti per limitare il fenomeno, oltre che sempre più di presenza di buone rappresentazioni di altre identità e di collaborazione.
Dal The Guardian si legge che La Blizzard Entertainment ha recentemente introdotto le funzionalità di “ricerca di gruppo” nel suo sparatutto “Overwatch”. Dopo poco tempo, i termini offensivi sono diminuita tra il 15% e il 30%. Ancora lungi dall’essere la modalità perfetta, è comunque la prova che incoraggiare un buon comportamento funziona e, più in generale, che ci sono misure che le aziende possono adottare per rendere le loro comunità più accoglienti.
I Media, non solo le piattaforme social e digital, ma i professionisti del settore che dovrebbero fare più analisi, più documentazione e più informazione su quanto accade, prendendo forti e decise posizioni.
Le Istituzioni, legiferando e controllando con regolamentazioni idonee.
E soprattutto la presenza di videogiocator* LGBTQ+ negli spazi virtuali e reali, perché se tutti questi dati restituiscono una situazione desolante, sappiamo anche che ce ne sono altri che confermano quanto la rete sia di supporto e di vicinanza: il 74% delle persone che son state molestate e/o abusate hanno ricevuto sostegno da altr* giocator*; il 70% ha fatto amicizia e ha trovato persone simili con cui interagire, e il 69% si è sentit* in una comunità.
Siamo sempre noi alla fine che salveremo il culo a tutt*.
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