E ora parliamo della parola “queer”.
Era il 14 agosto del 1999 o del 2000, ora non ricordo e se mi verrà in mente correggerò, e stavo lavorando al Cassero di Bologna, nella vecchia sede, quella di Porta Saragozza, prima del trasferimento, prima del cambio generazionale, poi ci arriviamo.
Durante la settimana di Ferragosto la città si svuotava e così il circolo in quei giorni contava una manciata di persone, turisti perlopiù, che venivano a godersi un gin tonic sulla piccola terrazza del torrione del XIII secolo.
Alla porta di ingresso a controllare le tessere ARCi c’eravamo io e David. Sara era al piano di sopra. Nel locale ancora nessuno, mentre noi eravamo sull’uscio a chiacchierare delle vacanze che non avevamo mai preso in considerazione, in bolletta perenne come eravamo.
Si ripresentò un tipo con la sua ragazza, era ormai la terza o quarta volta che provava a tornare dopo che il sabato sera li avevamo messi alla porta perché coinvolti in una rissa. Da quella notte avevano deciso di tornare ogni sera a insultarci e aggredirci, senza che noi desistessimo nel farli entrare. “Tu, cazzo in bocca, stai zitto”, “puttana”, “froci di merda”, “frocio”.
Avevo paura ogni volta che succedeva, ma quelli erano tempi in cui non eravamo mai soli e pian piano ci si faceva la scorza.
Tornarono anche quel 14 agosto, urlando rabbiosi come le sere precedenti e noi ci asserragliammo dentro. Lui tirò calci alla porta, insulti, “froci di merda”, ancora calci e poi silenzio.
Riaprimmo la porta quando il trambusto fu passato.
Si affiancò una macchina al marciapiede, sotto il portico.
Il tipo abbassò il finestrino e dal posto di guida ci puntò una pistola.
Non disse nulla, ci puntò la pistola.
Restò così, non so, per dieci secondi forse, mi sembrò un’inutile e insensata eternità, in cui rimanemmo pietrificati senza far nulla.
Poi io e David rientrammo dentro.
Chiama la polizia, subito. Siete sicuri che avesse una pistola? Sì, siamo sicuri. È un’accusa grave, siete sicuri? Sì, lo siamo. Ora dov’è? Non lo sappiamo forse nel parcheggio dietro.
Arrivarono una dozzina di volanti, da cui scesero poliziotti armati. Come nei film. Il tipo era ancora lì, da solo, nella sua auto.
Perché fosse ancora lì, per fortuna non lo scoprimmo mai.
Fu trascinato fuori dall’auto e immobilizzato a terra, mentre da lontano guardavamo i poliziotti smontare i sedili dell’auto.
Non trovarono la pistola.
Siete sicuri non fosse un ombrello? Sì, siamo sicuri.
Quella notte in Questura lui ci denunciò per calunnia.
Il giorno dopo, io David e Sara prendemmo l’iniziativa di chiudere il circolo, eravamo ancora troppo scossi e impauriti. Ricordo che il direttivo si incazzò con noi: da quel 28 agosto 1982 il Cassero non aveva mai chiuso. Mai. Manco un giorno.
Perché? chiesi. Perché noi facciamo servizio, se qualcuno ha bisogno di noi, siamo aperti. Siamo rifugio.
Era davvero così e lo era stato per me e per tutt*.
Comunque ‘sti cazzi, chiudemmo lo stesso, eravamo terrorizzati che tornasse a spararci.
Qualche settimana dopo la polizia ci avvertì che le accuse erano cadute: il tipo aveva accoltellato un’altro in una darkroom. O fuori da un locale gay. Chi si ricorda.
Ma no, decisamente non era un ombrello.
E ora parliamo della parola “queer”.
Se la parola “frocio” fosse epicena, neutra, sarebbe la traduzione più aderente alla parola inglese “queer”. Entrambe nate attorno al XVI secolo, entrambe attraversano i secoli portandosi dietro il peccato, la vergogna, la discriminazione (“There’s nowt so queer as folk”), la violenza.
Nell’700 si inizia a usarlo come insulto frequente.
Mi hanno puntato una pistola in faccia perché sono frocio, non perché “queer vuol dire obliquo in tedesco”.
Se chiedi a qualcuno che è stato picchiato o aggredito perché gay, sono sicuro che la parola “frocio” gli sarà stata ripetuta molte volte.
Sono quasi sicuro che la parola “queer” sia stata urlata dagli assassini di Matthew Shepard mentre lo ammazzavano, o dal killer nel Pulse di Orlando prima di uccidere 49 persone.
Ma non devo certo documentare a voi le aggressioni subite all’urlo della parola “queer”, perché basta chiedere, informarsi e poi ‘sti cazzi pure a voi.
Poi c’è una cosa magica che fanno le comunità marginalizzate, ovvero l’appropriazione della lingua.
Entrambe le parole hanno subito una riappropriazione da parte della comunità LGBTQIA+: abbiamo iniziato a usarle anche noi, per svuotarle di tutta la violenza, per disarmare i nostri aggressori, usandola con ironia, depotenziandola, facendola nostra, non più loro.
Per esempio ci siamo ripresi la parola “queer” nel 1990 a New York, con il Queer Nation, un’organizzazione di attivisti LGBTQIA+ nata per contrastare l’escalation di violenza di quegli anni e per contrapporsi al movimento assimilazionista ed eteronormativo.
In Italia, Samuel Pinto alias Lola Punales fonda nel 1977 il “Collettivo frocialista” che l’anno dopo diventerà “Circolo 28 giugno”, appunto il Cassero.
Parliamo di tanti anni fa, lo so.
So anche che quando parliamo della parola “queer”, parliamo di un neologismo semantico, ovvero una parola che si evolve nel tempo modificando il significato. Queer ora significa anche altro.
Cambio generazionale, dicevamo, e le nuove generazioni hanno adottato l’inglesismo “queer” forse dimenticandosi della sua portanza politica.
Si usa la parola queer spesso senza sapere che tra le sue lettere c’è politica, s’è sovversione, c’è resistenza, c’è rivoluzione, e non in astratto ma verso un nemico ben chiaro e definito.
Ma non voglio mica star qui a frenare l’evolvere delle parole con le mie mani.
Mi chiedo solo: se spogliamo una parola della sua storia e del suo valore politico, se la priviamo del legame identitario della comunità LGBTQIA+, quando ancora ci serve, quando per noi è ancora centrale, allora che altre armi abbiamo?
Perché io ho necessità di definirmi in una società che vuole cancellarmi.
Io ho ancora bisogno di quella parola.
Il mio nome, questo blog, sono nati con quella parola, poco dopo quell’aggressione.
Lo sentii da Helena Velena la prima volta e poi lo lessi sui suoi libri che non era ancora il 2000.
Mi disse che quella parola ce l’eravamo ripresa, per farla diventare solo un ombrello, non più pistola.
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