La consapevolezza delle cose

Ogni mia azione giornaliera mugghia rivendicazione politica ma il mio cuore non può sopportare il peso di tanto controllo, della misurazione costante, delle micro e macro conseguenze. La mia identità politica ha il diritto di obliterarsi.

Ogni mattina mi alzo alle 7 e mangio cinque uova.
I dubbi sulle mie scelte politiche a dieci minuti dal mio risveglio sono almeno tre:
1) Chissà se ho scelto le uova giuste che salvano i polli da esistenze barbare;
2) Mangio solo gli albumi con grande spreco dei tuorli che conservo in un bicchiere per senso di colpa, prima di buttarli sei giorni dopo;
3) Strapazzo uova per abitare un corpo che abbia standard estetici che subisco solamente.

Alle 8 prendo la mia bici per raggiungere l’agenzia in cui lavoro a 12km di distanza. Non uso bus, non uso scooter, non uso automobili. A fine giornata, tra andata e ritorno, sosta quotidiana in palestra, avrò cambiato sei magliette, una camicia e due pantaloni, che in un veloce calcolo mi porta a fare almeno quattro lavatrici a settimana. Non ho idea se sia davvero sostenibile.

Quando non scrivo fumetti, saggi o articoli, il lavoro che mi assicura di pagare affitto e bollette è quello del pubblicitario. Dopo un passato da strategist e copywriter, da tanti anni sono direttore creativo e qui le mie responsabilità politiche iniziano a diventare considerevoli: verso l’agenzia e i suoi valori di rispetto ed equità; sul gruppo di lavoro che formo e gestisco; su tutti gli altri colleghi e colleghe, con infinite chiacchiere alla macchinetta del caffè sull’ultima polemica social.
Sento la responsabilità in ogni copy che scrivo o supervisiono, sui maschili sovraestesi, sui femminili professionali, sugli epiceni, sulle circonlocuzioni , insomma su una corretta comunicazione.
Sento la responsabilità in ogni foto scelta dalle banche immagini: perché solo persone bianche? Perché solo uomini? Perché famiglie eteronormative? Perché corpi conformi? Perché corpi abili?
Tutto questo su una campagna di affissioni nazionale o un post Instagram di un würstel.
Non è solo sulle creazioni finali, la stessa attenzione è sui documenti interni, quelli ai clienti e alle clienti, alle e-mail, alle chat nell’agenzia. “Ciao a tutt*” e ormai è la norma.

Bilancia di questo peso sfiancante è il numero di volte in cui mi rinchiudo nel bagno, seduto sul WC, perché unico momento in cui posso sollevarmi dell’ingombro dei significati e dei significanti.
Spesso rimango lì e chiudo gli occhi per qualche minuto, in un esercizio di obliterazione individuale. Penso ai punti di Kusama, provo a sparire nello sfondo. Nascosta, questa somateca non racconterà la sua storia, non le sue relazioni con l’esterno; il mio sé finalmente non sarà relazione col mondo, ma essere individualistico. Ma è questo possibile? Sottrarsi al corpo politico?
Rumino domande il tempo di un paio di scorregge.
Altre volte scorro i social e scrivo un commento all’ennesima polemica che per il 90% delle volte sarà sui miei soliti temi, altre volte un meme con degli uomini nudi nei videogiochi.

Non conto le cene che sono riuscito a rovinare perché qualche conoscente al tavolo si è lasciato sfuggire quella frase che proprio non potevo ignorare. L’ipersensibilità e la gestione della frustrazione su questi temi ancora è oggetto delle mie sedute psicanalitiche.
“Non puoi solo divertirti a cena ed evitare di far diventare tutto una conferenza politica?”, no, non ci riesco, la pressione della consapevolezza non mi dà tregua, mi stringe una mano al collo, è alle mie spalle sempre all’erta. Cosa succede se non lo faccio? Non lo so.
Il mio corpo non ci sta, non si ritrova, non è il suo ambiente, è smanioso, è indolenzito, è una dysphoria mundi che non mi allenta, come dice Preciado.

Il peso della consapevolezza delle cose continua fino a quando la sera, dopo aver ingollato uno Xanax RP da 1mg accompagnato da altre 10 gocce, chiudo gli occhi e mi addormento litigando con gli ultimi sensi di colpa che, stanchi e obnubilati, cercano di dare le ultime gomitate.
Il sonno diventa finalmente cono d’ombra in cui nascondere la mia identità dalle sue implicazioni politiche. L’ho imparato bene quando ho sofferto di depressione e lo sa bene anche chi la depressione prova a curarla: quella non è una soluzione.
Ma deve esserci un luogo e un tempo in cui io possa far galleggiare la mia persona, il mio corpo sospeso, dalle conseguenze dell’azione e persino (soprattutto) della non-azione.

Le identità altre, virtuali, sostitutive, negli anni ’90 e nei primi 2000, mi son sembrate una fertilissima speranza, per poi comprendere -con l’arrivo dei social network- che erano amplificatori e moltiplicatori di responsabilità. Il corpo cybernetico è sì evoluzione, ma porta con sé una responsabilità ancora più pesante, quella del futuro, il lavoro inarrestabile del divenire, del pacificare mondi, di essere soglia.
Mi sento identità iper-politica più di quanto sia percepito all’esterno.
Sento responsabilità collettive il cui peso fa perno solo sul mio capo.
Mi sono auto-investito di scopi e perseguimenti senza che nessuno me ne richiedesse etica.

Delle mille soluzioni che cerco di trovare per sollevarmi da questa che sembra una maledizione cadutami dal cielo, un trojan-worm, qualcosa che prescinda dal mio volere e dalle mie intenzioni, ogni tanto ne intravedo una che blatera di come l’unico modo per sollevarmi dal peso, sia sollevarlo dagli altri. Di come sia certamente tutto politico, ma nel discernimento io possa comprendere la fallibilità umana e necessaria.

Benché tutto è conseguenza delle nostre azioni, vorrei mi concedeste la possibilità di deresponsabilizzarmi per qualche ora, per un fine settimana, forse il tempo di una pizza, di un gin tonic.
Oppure di capire come riutilizzare tutti quei tuorli e sentirmi rispondere: “A’ Giqù, ma magna tranquillo”.

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