Consolo in corpo 6

Ritorno a scrivere ma in corpo 6, massimo 7, qualcosa che non crei fastidio ma solo un rumore di fondo come quello della macchina per scrivere di mia mamma, una Olivetti Lettera 32.

***

Dice, ma se non vuoi che ti leggano perché scrivi? Ma io voglio che siamo in pochi, che si capiti qui per caso, per un bisbiglio, un invito non dovuto, quello che si addice a un consolo. Ho bisogno solo di ricominciare dopo l’anchilosi degli ultimi mesi. Son cose che è meglio fare nel tinello, tra di noi, a fumare vicino la finestra mentre di là, nel salone buono, gli altri discutono e alzano la voce, divertendosi o forse no.

Mia mamma mi ha lasciato una Olivetti Lettera 32, dicevamo, o forse non ve lo avevo detto; era il regalo fatto da mio nonno per i suoi diciott’anni. Le famiglie più ricche abitualmente regalano l’auto per celebrare la raggiunta maturità: una spinta all’indipendenza. Per mio nonno, sminatore analfabeta morto di crepacuore dopo anni di campi di concentramento come partigiano, l’indipendenza era sì una macchina ma per scrivere, non da guidare.
Per questo non ho mai avuto bisogno di prendere la patente, così me la racconto, che suona bene.

Me ne sono appropriato da piccolo di quell’Olivetti azzurro ghiaccio, ho iniziato lì a scrivere, accarezzando le linee zigrinate e razionaliste di Nizzoli, il nastro rosso e nero che mi macchiava le dita ogni volta che lo riavvolgevo, smontando il cofano per disincagliare i martelletti quando avevo foga e accavallavo le parole nella sua cinematica.
Nizzoli faceva il pubblicitario, in questo modo entrò in Olivetti. Ci penso ogni tanto.

Nel tinello si diceva, una pausa dopo il tempo passato di là scrivere un libro dietro l’altro, a tener banco con parole, dati, analisi e storie, soprattutto storie, e qui invece, dove nessuno ti vede, ti accorgi che questi sospiri non son altro che il desiderio di svuotarsi come palloncini.
Allora la tengo io l’Olivetti di nonno, ma mamma tanto già lo sapeva: mai richiesta indietro anzi, ogni volta che la ritrovava l’accarezzava con lo sguardo di chi culla nostalgia e poi faceva lo stesso con me.
La Fallaci la usava, lo sai? (quella voce c’è da qualche parte).
Le Giussani ci hanno scritto Diabolik, le rispondevo.
Poi mi raccontava quando andava a lezione di dattilografia dalle sorelle Ravizza che le facevano coprire le mani con un foglio durante le dettature per esercitarsi nella propriocezione delle dita.
Le stesse mani coperte dal lenzuolo che ho cercato nei giorni scorsi, per farle percepire anche me accanto a quel letto in ospedale.
Non ci si abituerà mai al dolore dei verbi al passato concordati al suo nome.
E dopo i giorni di freddo, di decisioni impossibili e impossibili mancanze, abbiamo così tanto bisogno di fuggire. Abbiamo così tanto bisogno di una macchina per andarcene lontano, una macchina che accolga tutti, che comprenda l’ovunque, che arrivi lì dove vogliamo rifugiarci: nei ricordi insieme, sotto al sole, la capote della Diane beige arrotolata, Concato nell’autoradio e la strada verso il mare.
Allora grazie di avermi lasciato la tua in regalo: la cura per quella spina che ora abita nel cuore, per quell’apnea sempre più lunga che ti ha portato via.
Inizio in corpo 6, forse 7, poi si vedrà.

Ora chiudete un po’ quella porta che esce il fumo e poi quelli di là che starnazzano tanto, vengono qui a infastidirci. Io intanto metto su il caffè mentre sospiriamo silenziosamente, come palloncini dopo una bellissima, chiassosa, affollata, imprevedibile festa interrotta troppo, troppo, troppo presto.

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