Che la peggiore strage degli ultimi anni sia stato a scapito delle persone gay lesbiche e transessuali purtroppo non stupisce: l’odio per le persone LGBT è forse il più trasversale della nostra società.
Quello che è accaduto mi ha scosso profondamente: son giorni che non solo non riesco a godere dei momenti di riposo, il mio pensiero è fisso alle pagine dei giornali, alle foto e ai video in rete, ma soprattutto sento un forte senso di responsabilità per quello che è accaduto.
Dico responsabilità e penso a senso di colpa.
Perdonatemi se i concetti che esporrò possano sembrarvi scontati, inesatti o poco stimolanti, sto cercando come tutti di mettere ordine alla confusione emotiva della tragedia accaduta.
A seguito dell’approvazione della legge ugualitaria per i matrimoni in US (come quella delle unioni civili qui in Italia), la questione lgbt non è mai stata così protagonista della cronaca. Immagino che la strage del Pulse di Orlando faccia parte di un colpo di coda, un ultimo tombino scoperchiato di resistenti all’ignoranza, al rifiuto, alla cecità di chi non vuole affrontare, misurarsi e infine comprendere.
È la stretta finale: abbiamo raggiunto traguardi che costringono anche chi non voleva, a fare i conti con la nostra visibilità e soprattutto con i loro demoni interiori. Martin Luter King fu assassinato quattro anni dopo l’approvazione del Civil Rights Act, quando l’America si avviava verso la completezza delle leggi antirazziali del 1968, quando la rivoluzione era ormai ovunque, inarrestabile.
Mi ritrovo a cercar di capire (che stanchezza, tocca sempre a noi capire?) quale sia il motore propulsivo di un’onda di violenza verbale che mi affoga quotidianamente con flusso costante.
Le barriere di cosa è lecito dire e cosa no, sono abbattute da tempo: pronunciare o scrivere determinati pensieri di odio vuol dire sdoganarli, farli entrare in una discussione che la storia ha già risolto e giudicato.
Che lo facciano poi politici, persone in vista e modelli anti-culturali inquina la lingua, infetta i pensieri. Peggio: giustifica il ripeterli.
Vedo compagni e compagne, amici e amiche, impegnarsi ore e ore a spiegare assurdamente a sordi impenitenti cosa sia violento e cosa no, chi discrimina e chi è discriminato, cos’è omofobo, transfobico e cosa no.
E soprattutto rimettere in discussione anche chi deve decidere su questo, in uno scambio di significanti in cui addirittura la vittima viene additata come discriminatore del carnefice perché si sottrae o difende.
Ma comprendo che il livello di preparazione culturale sia spaventoso e di una preoccupante povertà umana: vedo incapacità di empatia, un’ignoranza endemica irreprensibile, uno stallo che mi spaventa.
Ora mi autocommisererò per un momento.
Beati voi che vi sentite motivati dopo questa tragedia, io sono ferito, senza forze.
Beati voi che non sapete cosa significa leggere giudizi di morte ogni giorno.
Beati voi che alle foto delle vittime, non leggete il vostro nome sostituito a quelle didascalie.
I ho paura, altroché, e non che qualcuno possa uccidermi, ma perché sento che le mie armi hanno perso contro un fucile d’assalto. Questo sentimento di sconfitta mi spaventa.
Ho bisogno di un programma educativo emozionale che mi aiuti a rialzarmi.
Qualche giorno fa il mio amico Paolo ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una lista di film che descrivono la cultura lgbt degli ultimi anni, invitando tutti ad avvicinarsi ad essa. Un altro amico ha detto ai colleghi di essere gay e altri due hanno pubblicato la foto della loro proposta di matrimonio. L’ho trovato un tentativo di rieducazione, di raccogliere i pezzi, di scartare le lacrime e ritrovare la tenerezza.
È forse questa la soluzione? Dovremmo ricominciare forse ad educarci, tutti assieme, magari scrivere un programma di educazione sentimentale per noi stessi e per chi ci sta attorno?
Abbiamo una cultura che ci racconta, che ci rappresenta, che può consolarci, una cultura di coraggio e coming out; riniziamo ricordandoci chi siamo.
Fare coming out è affermazione di ciò che si è, è un buon punto di partenza, no?
Le 49 persone uccise e le 53 ferite al Pulse di Orlando sono state uccise non in quanto “persone” o “americane” (come ho letto da altri confusi indecisi tra lotta politica e aforismi da diari adolescenziali), bensì in quanto gay, lesbiche, bisessuali e transessuali.
È la nostra identità, non è un’etichetta, sono parole e le parole servono a comprendere. Le etichette sono scomode solo quando non le si possono cambiare e le nostre sigle sono tantissime, liquide, aperte. Sono parole così potenti che spingono persone a fare gesti folli pur di cancellarle.
Allora riniziamo daccapo, attuiamo questo programma: mi chiamo Luca e sono gay, anzi, sono orgoglioso di essere gay, proprio come le vittime del Pulse di Orlando.
Non concordo col tuo pessimismo, ma lo capisco e mi ferisce.
Bellissimo testo Luca, mi ha davvero toccato dentro.
Grazie Senio, speriamo di ritrovare un po’ di fiducia e ottimismo presto, dopo una profonda analisi.
Ma perché provi senso di responsabilità e colpa? Con tutto quello che fai per promuovere la cultura LGBT, indugiando anche sugli anfratti meno noti come le sfumature LGBT dei videogiochi e altro ancora…..non dovresti proprio…….la verità è nessuno di noi può oltre un certo limite fare nulla contro la follia di singoli, la follia dalla religione, la follia di chi crede di avere in mano la verità presa da testi presunti sacri scritti da pastori vissuti migliaia di anni fa’ in nome di un inesistente dio